Il Maestro non si discuteva.
Maschio o femmina che ti capitasse, giovane o vecchio, capace o capra, magnanimo o arcigno, accogliente o integerrimo, montessori piuttosto che fustigatore di bacchette di legno su palmo di mano, come un parente o un accidente della vita a cui è improduttivo fare resistenza, toccava rassegnarvisi. Impensabile ricusarlo anche per palese incompatibilità, ancor meno entrare in merito su come la pensasse, quali modalità adottasse, quanti compiti assegnasse, cosa facesse in classe, a chi desse quattro e a chi otto, e perchè.
Il Maestro era un’autorità istituzionale, al pari del maresciallo dei carabinieri o del medico condotto, un facente funzione di educatore fuori di casa, nella scala gerarchica un gradino sopra gli stessi genitori. Del resto deteneva il Sapere e l’arte di trasmetterlo, prerogativa che poteva cambiarti la vita, in negativo se eri uno scansafatiche refrattario alla scuola, in positivo se ti applicavi e aprendoti al futuro.
In un eventuale contrasto alunno-docente, nessuno fuori o dentro casa che venisse in tuo sostegno, nemmeno lo zio più scapestrato: una nota di demerito, un rimprovero anche fuori misura, una bacchettata sulle mani, un’ora in piedi dietro la lavagna erano misure restrittive approvate dalla comunità tutta, come per un tacito accordo o una legge non scritta del mondo adulto.
Eri piccolo? beh, dovevi abbozzare, altrimenti tutti d’accordo ti ci davano le altre sopra. Si, sopra, dicevano i genitori, come girare un coltello in una piaga, colpire la ferita ancora sanguinante, versare un bicchiere nella diga ormai colma.
Né andava meglio con i compagnucci. Se alla ricreazione beccavi il capetto di turno, pluriripetente di quelli che portano impressi in faccia il destino e che oggi si chiamano bulli -con un’anacronistica definizione, ingellata come la chioma di Fonzie negli anni 50-, se andava bene si accontentava del panino che nascondevi sotto il banco, altrimenti subivi a seconda del suo capriccio giornaliero, senza poterti appellare nemmeno al quinto emendamento.
Niente che comunque si potesse raccontare a casa, e per più ragioni. Intanto la spia non si faceva di default a costo della vita, e poi il rischio di essere bollato da vigliacco coglioncello che andava a chiedere aiuto ai grandi, frenava ogni rivendicazione di ingiustizia sociale. Al massimo, se ce l’avevi, potevi sfoggiare un cugino poco più grande, o uno dei capetti pluriripetenti che eri riuscito a farti amico con una copia di analisi grammaticale.
Il mondo dei piccoli era uno, anteprima di quello dei grandi, inconciliabili l’uno all’altro come due sottinsiemi distinti che in comune avevano solo la legge, quella dei grandi, il cui sacerdote massimo era il Maestro, senza diritto di replica. Evidente che il riconoscimento del suo ruolo va di pari passo con l’evoluzione dei tempi, il Maestro con la M maiuscola è esistito finchè maiuscole erano Scuola, Politica, Famiglia, Stato e così via, certezze indelebili come un uniposca tossico.
Cosicchè quanto è accaduto pochi giorni fa al povero docente che si è ritrovato su un video virale di YouTube succube del suo alunno ragazzetto che lo ricopriva di insulti e minacce, non è altro che l’effetto dello scquacqueramento del Senso, che ha messo in discussione certezze buone ereditate dal passato insieme alle più arroganti prevaricazioni del potere costituito.
Quando venendo in soccorso alla propria creatura, allevata come unicum di un insieme esclusivo, i genitori ricusano il docente per come la pensa e la fa, per i suoi orientamenti sessuali, i voti che mette, i compiti che assegna, e soprattutto per la sua incapacità di accorgersi che il proprio bambino è un genio incompreso vocato a destini mirabili.
Ora non dico fosse meglio o peggio rispetto a oggi, dovremmo forse chiederlo alla schiera di terapeuti che un povero ragazzino oggi deve sopportarsi perché supposto ammalato di patologie astruse dagli acronimi americani che noi qui manco riusciamo a tradurre.
Cresciuti in un frullatore di informazioni che macina ogni certezza, imparano subito che agli adulti conviene disubbidire quando hanno qualche senso di colpa da farsi perdonare, così da usarlo come arma impropria, per sfrugugliare all’occorrenza il demone segreto che gli leggono in faccia.
Li abbiamo imbottiti di droghe potenziatrici per guarirli da supposte deficienze cognitive e aizzarli alla competizione verso destini da supereroi, primi a scuola, a musica, a scuola, a danza, a disegno, a canto, mentre la Vita vera prospetta si e no un futuro traballante da precari o emigranti.
Che ci aspettavamo, se non che rispondessero ubbidendo alla capacità di adattamento della specie per prendersi il mondo che abbiamo apparecchiato per loro, ma con tempi e modi che non sono deficienze ma rapidi mutamenti di connessioni neuronali, a noi inaccessibili.
Ci finirà come l’Uomo di Neanderthal col Sapiens, loro la nuova stirpe dai superpoteri che soppianterà noi, triceratopi ormai rinco destinati all’estinzione. Con la speranza che fra con una cinquantina d’anni di evoluzione, riescano almeno loro a darci un governo.
Antonio Pizzola
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