In passato mi destabilizzavo facilmente. Un saluto non ricambiato, una battuta non capita, uno sguardo cupo, una giornata in solitudine o una banale frecciatina bastavano a disorientarmi.
Perdevo il contatto con me stessa, mi desintonizzavo.
Era sempre tutto sbagliato e sempre per colpa mia.
-Cosa c’è che non va in me?- mi chiedevo, ma era una domanda retorica: sapevo benissimo cosa non andasse in me.
Credevo a tutto ciò che le persone mi dicevano, tranne ai complimenti: quelli mi suonavano sempre falsi.
Pensavo che spettasse agli altri giudicarmi e stabilire il mio valore.
Ero quello che gli altri mi facevano essere, quello che leggevo nei loro sguardi.
Avevo talmente paura e bisogno del giudizio altrui, che smisi di guardare negli occhi le persone.
Mi davo tante giustificazioni per ogni errore che commettevo, scaricando la colpa su una forza impossibile da contrastare:
-Sono nata sbagliata, non posso che sbagliare.
Non avevo via di scampo, non sapevo da dove poter iniziare per correggermi e migliorare: ero fatta così, qualsiasi altra cosa sarebbe stata finzione.
Ho creduto per tanto tempo di essere pazza. Non del tutto, ma abbastanza. Di quelle pazze che tengono allegro il paese, che al loro arrivo la gente mormora che è arrivata la pazza, sperando in una stravaganza da poter raccontare la sera a cena, per stare allegri in famiglia.
Non mi piacevo affatto e preferivo la compagnia di donne completamente diverse da me.
Quelle donne che, con uno sguardo, riescono a capire se hai la febbre e quanta ne hai, quelle che la domenica hanno sempre una torta nel forno e qualcuno con cui andare a spasso, quelle che fanno il cambio armadi a ogni stagione, le pulizie di primavera e la conserva di pomodoro. Quelle donne capaci di convincere i figli a mangiare le verdure lesse e a ripassare le lezioni precedenti, per portare a casa un dieci.
Che bello farsi coccolare da questo genere di amiche, da questo tipo di donne!
A loro andavo bene come ero e mi facevano tanti complimenti, tutti falsi naturalmente, perché chi ti vuole bene perde obiettività e poi ti dice facilmente che sei brava, simpatica, buona e cara.
Era bello stare tutte insieme, con una tazza di caffè in mano, a pavoneggiarci dei nostri figli e a ridere del mondo.
Però, quando tornavo a casa, il mondo non mi faceva più tanto ridere: bisognava controllare i compiti, ascoltare il telegiornale e preparare la cena. Io avevo tanta voglia di cantare. Più i compiti erano difficili, il telegiornale nefasto, la cena insipida e più avevo voglia di cantare forte.
Ho sempre cercato di distrarmi, di non pensare a quella rotella spostata che non faceva girare bene gli ingranaggi del mio cervello.
Ho sempre cercato di vivere facendo del mio meglio, dando importanza a ciò che secondo me era prezioso, superando le negatività e sperando nel futuro.
Ma il futuro non arrivava mai, perché ogni volta diventava un presente duro, da poter sopportare solo sperando di nuovo in un altro futuro che, appunto, non arrivava mai.
Era come andare male a scuola.
È orribile andare male a scuola. Ogni mattina si spera che nevichi, che diluvi, che ci sia un cataclisma naturale qualsiasi che ci permetta di rimanere a casa nel letto, al caldo, immobili, a immaginare cose belle, senza il rischio di doverle fare.
Un giorno mi sono svegliata pur non volendolo ed ero talmente contrariata da questo fatto che ho smesso di dar peso alle cose. Non mi importava più di niente e probabilmente neanche di nessuno.
Ho cominciato a guardare negli occhi le persone, perché nessuna parte di me era abbastanza viva da poter essere ferita da uno sguardo e, con mio grande stupore, non ho visto giudizi, ma solo tanta curiosità. La stessa che ho sempre avuto io per il mondo, per la vita, per le storie della gente che incontro quotidianamente.
I pochi giudizi che percepivo stimolavano di rimando il mio. Improvvisamente caddero tutti i papi, i re e gli imperatori. Giù dal piedistallo su cui li avevo issati, erano alti quanto me.
Mi sono resa conto che non mi interessava affatto il parere di chi si permetteva di sindacare sulla vita altrui. Ho cominciato a usare i giudizi degli altri come parametro di valutazione per scegliere le persone da avere accanto.
Non mi piace chi giudica e non mi interessa il suo parere.
Sembra un’ovvietà, ma io ci sono arrivata con tanto dolore autoinflittomi.
È stata la chiave di volta per sconfiggere cento dei miei mille complessi.
Per ridere di certi sguardi e fregarmene lussuosamente di ciò di cui è lecito farlo.
Per rinascere o forse per non morire.
Per iniziare a volermi bene, insomma, senza nascondere questo sentimento che prima trovavo incestuoso.
Per essere contenta quando, al mattino, suona la sveglia e comincia il tran tran quotidiano. Mi affaccio alla finestra. C’è qualche nuvola, ma nessun cataclisma in arrivo: sarà una bella giornata.
gRaffa
Raffaella Di Girolamo
Mi somiglia tanto
Ottima riflessione… si legge tutta di un fiato. Brava.
Che vuoi che ti dica raggio di sole che si scopre ancora caldo da inondare il mondo…
Che in ognuno di noi è insito l’incapacità di amarsi per quello che si è per volere degli altri… ma l’importante è scoprire che tanto riusciamo a fare, e dare, senza per forza misurarsi con quell’io altrui che ci portiamo dentro..
finché morte non ci separi.
Mia cara ragazza vestiti con il vestito migliore che hai, il tuo sorriso, e fai vedere quanto esso è bello per la semplicità con cui ondeggia sul tuo volto!!
Bellissime queste riflessioni, rispecchiano un percorso di vita , tanta introspezione, sensibilità, maturità…
Come te nessuna mai ❤️