L’Epifania del Morrone

Un sole primaverile in pieno inverno, accompagna i passi del comitato TerrA – Territori Attivi – nella sua camminata con l’aria fresca e la tagliafuoco di Pratola Peligna a fare da direttrice verso il Morrone, perché il focus della giornata è proprio sul massiccio tanto caro ai peligni, o meglio sulla sua ultima sciagura: l’incendio. A valle una coltre di foschia ricopre come un’aura i centri abitati, è l’inquinamento prodotto da camini e stufe accese in questo periodo, il fumo sale in cielo solo fino ad una certa altezza, poi trovando un tappo di aria calda si diffonde in orizzontale non riuscendo a disperdersi nell’atmosfera. È il fenomeno dell’inversione termica, del quale si sente tanto parlare per via della centrale Snam: l’inquinamento che produciamo in Valle Peligna resta in circolo nell’aria che respiriamo, almeno fino alla prossima giornata ventosa.

Il comitato TerrA, nato letteralmente dalle ceneri del Morrone, ha organizzato ieri un’escursione informale in zona “Primi Pini” a Bagnaturo per ragionare su quello che l’incendio ha prodotto e causato e per sfatare alcuni luoghi comuni che si sono generati in questi mesi. Ad accompagnare il gruppo due esperti locali che si occupano quotidianamente per lavoro, degli effetti degli incendi sull’ambiente: il biologo Giampiero Ciaschetti e l’ecologo Kevin Cianfaglione.

E allora s’inizia dal principio, ovvero dal toponimo Morrone – morgia/morgione: grande pietra -, entrato nell’uso comune nel Basso Medioevo, periodo storico in cui l’Abruzzo si avviava verso la massima espansione della pastorizia – culminata fra il 1500 e il 1600 con la presenza di circa 5milioni di ovini – che comportò la necessità di ampi pascoli a scapito dei boschi. Per questo il Morrone venne sistematicamente spoliato delle sue piante fino a diventare poco più che un grande masso spelacchiato.

Situazione che si protrasse con maggiore o minore intensità fino ai primi del ‘900 quando il neonato Stato italiano iniziò la piantumazione diffusa delle conifere che andò avanti fino agli anni Ottanta. Era necessario stabilizzare il suolo divenuto estremamente franoso, si usarono pertanto le piante meno costose ma al tempo stesso più capaci di adattarsi al territorio: le conifere.

Sentire Ciaschetti e Cianfaglione parlare di boschi ha un che di mitico. Ne parlano come un’entità potentissima, capace di ristabilire equilibri che l’uomo nel tempo ha violato. Viene fuori in tutta la sua evidenza la straordinaria forza della natura, capace di rigenerare ogni situazione perché sostanzialmente è un sistema in equilibrio. E così i boschi trattengono calore in inverno mentre sono freschi in estate grazie alla capacità di regolare l’umidità al loro interno. Trattengono l’acqua grazie al sottobosco, limitano il ruscellamento dell’acqua piovana e l’erosione del terreno, sono un custodi di uno straordinario patrimonio di biodiversità. Il tutto avviene in maniera naturale, possibile solo se l’attività umana se ne sta ben lontana.

Mentre ci avviciniamo al bosco bruciato in agosto, attraversiamo le lande desolate chiamate comunemente dagli abitanti del posto “le cese”, altro toponimo da rintracciare nel tempo in ceduo o bosco ceduo, quel tipo di governo del bosco che si basava sulla capacità delle piante di emettere ricacci o polloni una volta tagliate. Così, a cicli temporali costanti, il bosco veniva completamente tagliato per ricavarne legna o carbonella. Questa pratica è stata abbandonata localmente nell’ultimo secolo per via del degrado che produceva nel patrimonio genetico degli alberi e per l’erosione che causava nei suoli, mentre questi terreni dopo essere stati coltivati sono stati a loro volta abbandonati. Oggi le cese sono diventate poco più che cespuglieti di nuova formazione, nell’attesa che la natura faccia il suo corso col ritorno, fra molti anni, degli arbusti.

I due esperti sembrano oratori latini che tutti ascoltano con attenzione. Ad ogni passo c’è una sorpresa, ad ogni sguardo una scoperta. Così strofinano la Ruta e la porgono al vaglio olfattivo dei presenti o si accovacciano a scrutare quello che ad un occhio disattento è poco più che un insieme di foglie che in realtà rivelano è un geranio.

La “carovana” entra nella pineta ridotta a poco più che un esercito di stecchini anneriti. Il silenzio s’impadronisce per un attimo della scena, ma anche in mezzo a tutto questo disastro c’è vita. I ricacci di leccio sono un po’ ovunque, mentre il terreno, grazie ai terrazzamenti fatti dal vecchio cantiere di rimboschimento, sembra essere rimasto per gran parte al suo posto, sfuggendo ad uno dei rischi più grossi del post incendio: la perdita di suolo fertile.

A terra, come carcasse esauste, decine di tronchi arsi ma non consumati. La camminata entra nel vivo perché è proprio su questo legname caduto a terra dopo la tromba d’aria del 2015 che in molti in Valle hanno scaricato gran parte della frustrazione durante le giornate dell’incendio.
“Perché non sono stati rimossi i tronchi a terra?” si chiedevano in molti affranti e invece la loro presenza in questo cimitero vegetale è la dimostrazione che i tronchi non bruciano, o meglio, non sono il vero combustibile dell’incendio. Infatti i tronchi sono stati soltanto sfiorati dalle fiamme, annerendosi e bruciando solo esternamente. A bruciare davvero è stata la ceppaglia, il fogliame, gli aghi di pino, le pigne e tutto ciò che era di piccole dimensioni che il fuoco ha potuto inghiottire con facilità.

Chiediamo allora ai tecnici se la rimozione del sottobosco potrebbe essere una soluzione per prevenire gli incendi, ma la risposta è negativa. Il sottobosco è parte fondamentale del complesso sistema bosco, trattiene acqua ed è la culla della biodiversità. Il bosco è in grado di rinnovarsi periodicamente proprio perché il sottobosco custodisce gelosamente i nuovi arbusti, oltre che essere in grado di accogliere le latifoglie e quindi dare luogo a quella metamorfosi che vede sostituirsi le piante a foglia larga alle conifere. Ovviamente la natura ha i suoi tempi e non possiamo avere la pretesa di ricondurli a quelli umani, per cui la sostituzione di un bosco si completa nell’arco di secoli, ma come sempre tutto tende all’equilibrio e ogni situazione torna allo stato originario ottimale per l’ambiente.

Dei tronchi a terra il fuoco brucia soltanto la corteccia ed eventualmente le parti marce, consegnando alla vista vere e proprie opere d’arte naturali. La rimozione dei tronchi arsi comporterebbe la distruzione di tutta la vegetazione che a fatica sta tornando e che colora a sprazzi di verde il terreno bruciato. Lasciarli a terra invece li trasformerebbe in briglie naturali – capaci di trattenere suolo e quindi nuova vita – e in materia organica che sarebbe l’humus del bosco del futuro.

Interrogandoli infine su quale potrebbe essere il deterrente più forte per gli incendiari rispondono senza esitazione “il presidio del territorio”. Una montagna vissuta in maniera sostenibile è una montagna più difficile da attaccare, del resto anche una montagna controllata nei punti strategici dai Carabinieri Forestali e da foto trappole ben assestate sarebbe difficile da incendiare. “Non dobbiamo interrogarci – spiega Cianfaglione – su come fermare un incendio quando questo è già stato appiccato, dobbiamo capire come impedirlo prima. Gli alberi di pino, i tronchi caduti a terra e il sottobosco non c’entrano niente, a meno che non vogliamo sostituire tutto con una colata di cemento e una serie di alberi finti e ignifughi” conclude sarcastico l’ecologo.

Savino Monterisi

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