Gli istrici spietati di Valentina, in corsa per il Campiello

E’ in libreria da due settimane e l’ultimo lavoro di Valentina Di Cesare, quarantenne originaria di Castel di Ieri, oggi insegnante a Milano, può già vantare una segnalazione importante, quella del Premio Campiello, dove la giuria dei letterati le ha chiesto di portare “Gli istrici”.

“Animali solitari, notturni, che si vedono poco e che, come la protagonista del mio romanzo – spiega l’autrice – quando si sentono in pericolo cacciano gli aculei”.

Edito da Caffèorchidea, il libro della Di Cesare è un altro (dopo Marta la sarta e L’anno che Bartolo decise di morire) e più spietato sguardo sulle sue montagne d’Abruzzo, che diventano simbolo senza nome delle aree interne dell’Appennino, in un viaggio solitario e di solitudine nei paesaggi e nelle anime di chi resta e di chi non è mai andato via dai quei piccoli centri che si stanno lentamente e cinicamente disgregando fino a scomparire.

Non c’è indulgenza, né romantica idealizzazione nelle duecentoventi pagine che scorrono con una struttura solida e uno stile intimo. Una descrizione viscerale di luoghi, ambienti e personaggi, che Valentina ha sedimentato nel profondo e scavato nella memoria, tanto più che il libro lo ha scritto durante la pandemia: “Lo avevo in mente da tempo – spiega – e quando ci chiusero dentro, mi misi giù a fermarlo con la scrittura. A verbalizzare la memoria collettiva di luoghi che prima veniva tramandata oralmente, ma che ora subisce un vuoto generazionale che rischia di far dimenticare l’identità di una comunità”.

La storia è quella del paese visto e vissuto dai personaggi che oggi la abitano: chi per scelta, chi per necessità, chi per paura. Rifugio e prigione, fisica e mentale.

C’è Francesca, la protagonista, che alla soglia degli ottanta anni vive da quasi trenta nel lutto perenne tra le mura di una casa rifugio, che solo la più giovane del paese, Carla, riesce a oltrepassare, restituendole il brivido dell’amore materno di un figlio perso sul lavoro lontano da casa. C’è Vittorio l’ex ciclista caduto e decaduto sulla linea del traguardo che nel paese senza nome si rifugia nell’alcol e c’è il giapponese, lo straniero venuto da lontano trasferitosi ai confini del mondo per cercare un altro mondo. Ci sono i profili degli altri restanti, più per necessità che per scelta: la mamma dei due gemelli che vive nell’eterna promessa di andar via e l’orda di turisti e ritornanti, che invadono gli antichi vicoli silenziosi l’estate, dando l’illusione di un futuro possibile, ma che poi scompaiono, all’improvviso “il giorno dopo le feste patronali”.

Quel che poi resta è un paese senza più comunità: “Dove vivono vecchi rancori mai sopiti, cose mai dette, dove c’è un bullismo latente, l’invidia e l’indifferenza. La rassegnazione. Vivere nei paesi che scompaiono non è facile, né bello – spiega Valentina sovvertendo una narrazione romantica – o almeno non lo è più. Perché la mia generazione è fuggita in silenzio e senza che nessuno elaborasse quello che prima, quando si emigrava in Australia, era un lutto collettivo. Questo buco generazionale ha creato un vuoto di comunità, che oggi rende sfiancante la sopravvivenza in questi posti”.

Resta il paesaggio “bello e duro dell’Appennino – aggiunge l’autrice – che mi sento di celebrare senza finzioni. Ho smesso di idealizzare il paesello, ma forse per questo oggi lo amo ancora di più”.

Solo l’amore può essere così spietato.

1 Commento su "Gli istrici spietati di Valentina, in corsa per il Campiello"

  1. Ad maiora, il coraggio premia sempre ma anche la sensibilità che trapela nei tuoi racconti.

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