Cambia, todo cambia

Polvere. Milioni di tonnellate di finissima rena fantasma. Impalpabile. Rossa ferrosa, appiccicosa come una scura calamita. Migra, vola, mangia miglia e montagne fregandosene dell’infinita distanza atlantica per sfamare con ematite e fosforo i campi d’Amazzonia. È sabbia unica. Benigna e diabolica. Africana. Dello sconfinato deserto dalle clastiche dune scolpite dall’incazzoso Simùn. Per secoli ha accecato le impazienti nomadi Tuareg che hanno sfidato il Sahara fidandosi del fiuto beduino e del sapido gusto per indovinare un percorso sicuro.

Sono femmine fiere e passionali. Musulmane senza tulle. A viso aperto. Donne padrone di tende e bestie. Maritate e con amanti che appaiono al tramonto ed evaporano all’arrivo del sole come sensuali miraggi. Sì, possono anche divorziare e lasciare all’ex compagno un cammello per togliersi di torno. Festeggiare con parenti e amici la libertà ritrovata. E regalare focose rime d’amore ai giovani corteggiatori con le ventotto lettere del vecchio alfabeto ereditato dalle mamme.

Latifa porta il velo a turbante. Un hijab che fascia capo e collo. Perché più pratico e perché mi rappresenta, spiega Benharara. Per dimostrare che il panno d’organza non è solo affanno o soggezione. Macché. Anche libero arbitrio. Coraggio e voglia di sapere. Allergia ai preconcetti. Imprevisto ed equilibrio sopra la follia. Solidarietà e sogno. Sfida: la peligna magrebina è partita dalla piazza grande di Sulmona con la sua ebike grigia azzurra. Macinato più di quattromila chilometri. Quarantatré tappe. Sfiorata la costa adriatica. Smezzata la verde Toscana per puntare la curva Liguria. Prima Francia, eppoi solo Spagna. Pioggia, ancora pioggia. Lo scontro con la furiosa Dana: città con il fango alla gola, famiglie senza respiro, morti affogati. La fuga in Andalusia, nel posto più terrone del vecchio continente. A Tarifa. L’arrivo a Erg Chigaga, in odor d’Algeria. Con sandali e anima nell’arido mare dorato del Marocco…

È vero: pedalando schizzi meglio i contorni di un paesaggio sbiadito. Incolore. Metti l’universo in riga. Seguendo il sentiero giusto che ti indicano le emozioni. Perché in qualunque direzione si stia andando sarà sempre in salita e contromano.

Annie, poco più di vent’anni, dimentica nell’armadio gonne e corsetti. Si stacca da Boston, abbandona sposo e tre mocciosi. Per tentare un’impresa, all’epoca della regina Vittoria, impensabile per una ragazzotta: il giro del mondo in bicicletta.

Il 25 giugno 1894 tutto comincia da un bugiardo pregiudizio. O forse dal capriccio di due annoiati miliardari. Chissà: una femminuccia non potrà mai fare quel che è riuscito, due lustri prima, al macho ciclista Thomas Stevens. La missione è tornare dopo quindici mesi in Massachusetts con cinquemila dollari in tasca. Se ci fosse riuscita ne avrebbe incassati altri ventimila. Ma prima che lei sparisca all’orizzonte un visionario rabdomante di acque minerali finanzia con un centone il viaggio, a patto di incollare sulla bici il marchio della Londonderry Lithia Spring Water Company. Da quel momento l’ebrea Kopchovsky, arrivata negli States dalla Lettonia ancora bimba, diventa Annie Londonderry. Allampanata vagabonda con un solo cambio di vestiti e un revolver dal manico di madreperla. In sella a un ferro Columbia di quasi mezzo quintale.

Scommessa vinta. Anche da chi pensava che la due ruote fosse l’immagine di una soffice brezza. Australe come il Pampero. La Pachamama è come quel vento ghiacciato che non si può fermare. Madre d’America, della terra di San Miguel de Tucumán, voce dei senza voce. Sorella di ogni bambina. Al tempo dei feroci colonnelli, nell’insanguinata La Plata, osa cantare Cuando tenga la tierra. Sulle ultime note risuona il marziale rumore di carica del fucile dei soldati. Già sul palco per incatenare la Negra e il chitarrista Nicolás Colacho Brizuela.

Scacciata. Esiliata. Da confinata calpesta il globo e sale di velluto. Tre anni di solitudine e cupezza. Malinconiche lacrime di mancanza. Nel 1982 il ritorno e una lunghissima tournée. Ma quel rimpatrio è un prodigio tra fifa e batticuore. Terrore e bombe mancate. Un miracolo artistico politico senza eguali. Quasi da imbottigliarne il ricordo. Al primo concerto a Buenos Aires, alla Cantora popular, chiacchierona e sorridente, manca però il fiato per abbracciare chi è venuto ad applaudirla. Era ora, a rivederla.

Aprì bocca, sembrava una guitara trabajosa. Affaticata: Mi chiamo… Mercedes Sosa… Sono argentina. Finalmente a casa, il resto…non contava…

Cambia il superficiale. Cambia anche il profondo. Cambia il modo di pensare. Cambia tutto in questo mondo. Cambia il clima con gli anni. Cambia meta il camminante. Cambia il più puro diamante. E siccome tutto cambia, che io cambi non è strano… Cambia, todo cambia.

Dylan Tardioli

2 Commenti su "Cambia, todo cambia"

  1. beatrice ricottilli | 24 Dicembre 2024 at 08:25 | Rispondi

    Come inizio di giornata, leggere tanta bellezza, è davvero un toccasana. Grazie Dylan per avermi insegnato un pezzo di vita vissuto da giovani donne, a me sconosciuto. Grazie Dylan per avermi permesso di sognare e respirare un pò della loro fierezza, del loro coraggio e soprattutto un pò della loro sofferta e conquistata libertà. Un plauso Dylan alla tua ottima “penna”. Auguro a te e a tutta la redazione de “Il Germe” buone feste e un anno nuovo di rinnovata bellezza. Con affetto. Beatrice

  2. Bentornato Dylan !

Lascia un commento

Il tuo indirizzo mail non verrà mostrato.


*