E’ una reprimenda pesante quella che la Corte dei Conti ha fatto al Comune di Sulmona e più in generale ai diciannove soci della Saca, la partecipata che si occupa del ciclo integrato delle acque. Un accertamento di cui dovrà essere informato il consiglio comunale il prossimo martedì e che contesta ai Comuni soci forma e sostanza della scelta fatta nel settembre del 2022 sulla governance della società. Ovvero quella di nominare, per accontentare gli equilibri politici, un consiglio di amministrazione di tre membri, anziché un amministratore unico.
Scelta che i Comuni avevano motivato con la necessità di rispettare gli equilibri territoriali e per dare manforte e maggiori professionalità all’azienda, allo stesso costo di un amministratore unico.
Motivazioni che sono state comunicate alla Corte dei Conti, in violazione di quanto dispone la normativa, solo a settembre scorso, dopo due anni cioè, e solo dopo le diverse richieste dei giudici contabili che definiscono la reticenza “un grave e reiterato inadempimento”.
Ma è sulla sostanza della scelta che la Corte dei Conti fa la censura più consistente, perché la legge che, in questi casi, prima consigliava l’amministratore unico, ora obbliga a tale scelta. A meno che non ci siano “specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa”, che nel caso della Saca, secondo i giudici, non ricorrono affatto.
Il confronto con 2.381 società analizzate nel settore, infatti, offre una media di complessità che è ben lontana da quella della partecipata peligna: la Saca ha infatti 65 dipendenti a fronte di una media di 141 delle altre che si occupano di gestione del ciclo integrato delle acque e un fatturato di circa 12 milioni di euro, a fronte dei 23,2 milioni di euro della media nazionale.
Insomma, un topolino che ha partorito una montagna di “generali” che, pur non incidendo sulla spesa, rispondono solo a esigenze della politica.
“Gli elementi controdeduttivi forniti non appaiono, in vero, idonei a superare le criticità emerse in fase istruttoria – scrive la Corte dei Conti – non appaiono elementi sufficienti a giustificare la deroga al principio fissato dall’articolo 11, comma 2, del Tusp. Di contro, non ha pregio, al riguardo, il richiamo alla ‘rappresentatività dei soci’ (e pertanto dei relativi territori), in quanto la stessa appare essere assicurata, rectius dover essere assicurata, con i poteri di controllo sull’organo amministrativo, specie in riferimento ad una società in house”.
La storia della rappresentanza, insomma, non regge: “Non vi è alcun elemento a dimostrazione che un Cda costituito da tre membri sia effettivamente in grado di garantire in concreto ‘un’adeguata rappresentatività territoriale’ – aggiungono i giudici contabili -, la quale, di per sé, trova nell’assemblea e non in un organo amministrativo collegiale (deputato alla gestione), la sua massima espressione”.
E d’altronde la governance non sembra aver apportato tutti questi benefici: nei bilanci 2022 e 2023 “il saldo tra proventi ed oneri finanziari è negativo in entrambi gli esercizi (rispettivamente euro 254.463 ed euro 651.806)”.
Ai membri del Cda vengono dati tra compensi e rimborsi spesa circa 39mila euro l’anno: poco più di 4mila euro al presidente Luciano Di Biase come rimborsi (Di Biase non prende compensi perché pensionato della pubblica amministrazione) e 34mila euro circa ai due membri Alessandro Pantaleo e Maria Di Rocco.
Rappresentanti e gettoni della politica, più che dei territori.
Logica conseguenza vorrebbe che il CDA dovrebbe rimettere il denaro indebitamente introitato…o pagherà come sempre pantalone?
Ma nelle aziende pubbliche o nelle partecipate non si entra per concorso? Che c’entra la politica?