23 indagati per 29 vittime, a farne una proporzione, quasi uno a uno. Chè non si scherza con la Giustizia, arriva tardi ma quando arriva, non lascia scampo.
23 gli accusati di disastro colposo, proprietari, amministratori, controllori e pubblici funzionari, responsabili – dice la procura – sia pure senza dolo, della disgrazia di Rigopiano, l’albergo a 1200 metri sul Gran Sasso.
Dove, da che esiste l’inverno, nevica.
Tanta ne è caduta quel 18 gennaio scorso da provocare una slavina di 120.000 tonnellate (4.000 camion di quelli grandi), precipitata a 100 km/h dal monte spostando quel resort a 5 stelle di dieci metri – due metri a stella -, soffocando nella neve e nel fango la vacanza dei 40 malcapitati.
Di chi sarà, di quei 23 accusati, la colpa?
Dell’albergatore, proprietario della struttura? E perché? In fondo è solo uno dei rari imprenditori che ha investito nel deserto appenninico senza velleità speculative distruttive, ha dotato il territorio di una struttura turistica d’eccellenza e solo dopo aver ricevuto le autorizzazioni del caso. Ha prontamente lanciato l’allarme alle autorità, fatto quanto poteva per limitare i danni.
Del sindaco allora?
Povero sindaco di Farindola, non gli sarà parso vero che un albergatore investisse proprio nel suo comune di 1.486 fantasmi dimenticati sull’impervia montagna come esemplari di una specie in via di estinzione, e che ora, grazie a quell’inaspettata carta verde delle probabilità, avrebbero potuto sperare in una sopravvivenza più dignitosa.
Si sarà sentito garantito il povero primo cittadino, tranquillo nella sua umile funzione part time a rimborso spese, se dai suoi tecnici, dalla provincia, dalla regione, dagli enti di tutela, dal genio civile, dall’istituto di geologia, dalla guardia forestale, dalla sovrintendenza ministeriale fioccavano ad uno ad uno a confortarlo i necessari pareri positivi.
E allora?
Ma allora forse la responsabilità è di chi ha autorizzato, dei vari uffici che hanno legittimato la ristrutturazione dell’antico rifugio, – scoperto già ricostruito negli anni ‘50 dopo una precedente frana (ma nemmeno di questa abbiamo certezza, nessuno si è curato di tenerne archivio), – nonostante già dal 1999 una guida alpina locale (ma guarda da chi fra tanti esperti e preposti dovevamo sentircelo dire…) avesse avvertito dei rischi di quell’area.
Eppure – a dirla tutta – il fabbricato di ampliamento autorizzato nel 2007, contenitore di quel centro benessere fiore all’occhiello della ricettività abruzzese, non si è mosso di un centimetro, solo sfiorato dalla catastrofe che ha invece polverizzato l’edificio preesistente.
Ma, seppure dovessimo prendercela con loro, incompetenti o solo incauti funzionari pubblici, su chi calare la mannaia giustizialista, se per costruire su una montagna i pareri necessari sono così tanti che possono rimbalzarsi l’un l’altro la palla, come tante sponde in una partita a filetto?
E che, ad accusa, ciascuno dall’angusto sottoscala delle rispettive competenze risponderebbe che i requisiti di legge c’erano tutti.
Che piuttosto ce la prendessimo con l’altro, – ché c’è sempre qualcun altro-, collega di competenze diverse e superiori, pupattolo anche questi di una matrioska interminabile, di un girotondo di pedine tutte giustificabili sul sottile filo del condizionale passato, – chi avrebbe dovuto, avrebbe potuto, avrebbe voluto -, per lasciare noi attoniti e nudi dinanzi al punto interrogativo che chioserà ogni risposta.
Perché io, dove ho sbagliato se ho seguito sul protocollo?
Prendetevela con chi, – risponderebbero a proposito di condizionali passati- avrebbe dovuto intervenire tempestivamente nell’emergenza limitando i danni e non l’ha fatto, avrebbe dovuto ascoltare le segnalazioni di chi avrebbe dovuto segnalare. E che, di certo possiamo scommetterci, potrà provare di averlo fatto.
Anche i sottoposti, sicuro, si autoassolveranno dimostrando di aver impartito gli opportuni ordini agli addetti inferiori, pupattoli più piccoli che, a loro volta, per quanto pronti e all’erta, si saranno trovati impossibilitati a intervenire, perché lo spazzaneve aveva perso lo spazza, il gatto delle nevi alle prese con i croccantini, l’elicottero senza gasolio, il manutentore in malattia, il sale finito.
La matrioska di competenze e responsabilità finirà all’infimo pupattolo racchiuso in fondo. La partita a biliardo di lucide palle in rimpallo fra le opposte sponde non colpirà alcun birillo, perché nessun birillo, preso singolarmente, avrà colpe.
E quindi, che gli raccontiamo ai parenti delle vittime e a tutto il resto del paese assetato di giustizia?
Dovremmo confessarci – a proposito di condizionali – che la vera, unica e tragica responsabilità sta in un potere senza volto né strategia che abbandona i territori più periferici e ne parcellizza le competenze, frantumandole in centinaia di sottoscala di piccoli fantozzi messi lì a riempire un vuoto e colmare un bisogno di stipendio, inermi burocrati di fronte a problematiche gigantesche che necessiterebbero di competenze incrociate, di tavoli di concertazione, di valutazioni sovralocali, di piani di intervento, di risorse distribuite con un senso, un disegno, una rete interconnessa di competenze.
Che non c’è impresa impossibile, non c’è sviluppo senza sostenibilità se il sistema è granitico, connesso, competente, indirizzato.
Ma a chi lo dici, ai poveri giudici in cerca di un colpevole? O al solerte e onesto comandante della forestale che un immotivato senso di colpa ha portato al suicidio?
Meglio uscirsene con qualche capro espiatorio che espierà solo per un pò, pescato magari nel solito manipolo di volontari, eroi per un giorno di una diretta tv che, con le racchette ai piedi come Zeno Colò, pale in mano e penne alpine riesumate dalla soffitta dei nonni, si è lanciato come un Heathcliff contro le cime tempestose del disastro, senza aspettare ordini e protocolli.
Scongiurando almeno che il numero delle vittime restasse al di sotto degli avvisi di garanzia che se ne sarebbero generati.
Antonio Pizzola
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