Poi scopri che le tue foto non sbiadiscono mai. Nemmeno al sole. Perché la nostalgia è bambina. Prosa e poesia. Spiccicata per tutti: lo slargo lontano dal quartiere popolare, mitraglie e zucchero filato, luci di aeroplani incerte come fiammelle. Il labirinto degli scheletri, colpi sfiatati del tirassegno, scoloriti pesci rossi, la palla da boxe che i tamarri sapevano far urlare con un destro. Sordi rumori dell’autoscontro, colonna sonora di anni consumati. Andati. Quando le giostre planavano in piazza Garibaldi come rondini. Per dirti che la primavera era nei paraggi anche se il Morrone non s’era ancora tolta la mantera di neve. E la Festa aveva i giorni contati…
Piccolo illuso. Pensavi che le processioni precipitassero dal cielo come i baracconi piazzati di lato al Fontanone per schiamazzare nella città vecchia. Fino al venerdì avanti la Resurrezione. Quando lo strazio del Cristo inchiodato sul monte calvo zittiva radio, tivvù e luna park per far risuonare il lamento dello struscio. Come lacrime tra le nuvole. Dei sorteggi nulla sapevi e ignoravi che la Madonna era già in Trinità dopo la messa vespertina, sospesa sull’altare maggiore. Impallata dal Figlio. Scura, l’argento sul capo e l’oro sotto i piedi. Il pugnale nel cuore. Su una base di pietra, a riposo, il Tronco di velluto. Eppoi i fanali spenti, fiori immacolati di cartapesta incastrati tra sei globi di vetro. Bianco. Ad altri confratelli di raso l’onore di circondare Gesù sulla bara con trentatré garofani rossi. Rosicavi all’andare mesto dei giovanotti che trascinavano il lampione come il palo di una bandiera a mezz’asta inclinato dalla fatica del passo. Volevi essere al posto loro.
Credevi che l’altra Signora in nero fosse imboscata nel buio di San Filippo. Poverino, nessuno ti aveva spifferato che avrebbe cambiato casa al tramonto del giorno prima di scappare e che invece era in lutto nella cappella di santa Maria di Loreto. Color pece fuori e speranza dentro. Accunciata. Con un rapido gioco di dita da sgamato prestigiatore, segreti grovigli di fili per imbastire gli scampoli del dolore e della goduria. Uno sull’altro. Che urla la domenica al crollo del manto accartocciato a terra come un sacco sgonfio senza fiato, al batter d’ali a ventaglio dei colombi. Allo schioppettar dei botti, l’abbraccio liberatorio degli uomini biancoverdi. Pronto alla fuga imprigionato nelle nuove scarpe di cuoio duro e le tasche inzeppate di gettoni. Per viaggiare con la macchinina orfana di ruote dalla quale non volevi più scendere. Guidata come se non ci fosse un domani. Per un’altra corsa ancora. Ancora. Un altro giro di Pasqua.
Dylan Tardioli
La Pasqua di Dylan Tardioli
Sintaess….brividi!!!!!!!
Buona Pasqua
Un altro giro di Pasqua
Un’altra pagina emozionante.
Un altro dono.
Grazie.
Tanti anni fa l’amico catturato dagli inglesi perché combattente nella guerra per la conquista di terre africane, di ritorno da un campo di prigionia, confessò a mio zio che il giorno di Pasqua, in quel campo, il suo pensiero fisso fu per la Madonna che scappava. E pianse tanto
Prose-poesie così dovrebbero essere prescritte dai medici. Un pò al giorno.Tutti i giorni.Saremmo tutti più sani e soprattutto più felici! Complimenti Tardioli.Che questa Pasqua faccia “risorgere” anche il buon pensare. Auguri a te e a tutta la redazione de “Il germe”. Beatrice
Ricordi straordinari di un tempo passato stringono il cuore.
..che
Giù il cappello