Dinasty

Per quanto ci sforziamo di rimuoverlo, Donald Trump è il presidente americano. E contemporaneamente e altrettanto incontrovertibilmente, un soggetto.

La più incredibile macchietta della storia americana, che a macchiette nemmeno difetta. Possiamo discutere sui perché e sui per come sia stato eletto ma che sia un personaggio e che sia riuscito è roba da non crederci. Ce lo giustifichiamo senza dircelo covando l’illusione collettiva che sia un fake, che quando cambiamo canale o notizia lui smette la parte, che sia tutto una bufala globale che risolveranno prima o poi con una toppa a colori. Con un’espediente nella sceneggiatura, tipo brogli elettorali e spie russe.

Che ci sia una sceneggiatura però è acclarato: nel non detto del senso condiviso, la sola ragione accettabile del successo suo e del suo ciuffo biondo, che qualcuno deve averglielo suggerito o prescritto. Più che un presidente, Trump è il personaggio del presidente, come lo avrebbero immaginato in una fiction sulla Casa Bianca. Solo che la fiction non è una spy story, un thriller mozzafiato, un’action alla Hollywood, è grottesca, picaresca, decadente, sembra più il remake di una soap anni 80 rimandata in onda per gli afficionados.

Pettinato come il Blacke Carrington di Dinasty, sorriso a tutti denti da comandante Merril di Love Boat, in seconde nozze con una simil Sue Ellen di Dallas mentre la precedente moglie, rifattissima Brook di Beautyful, si consola con la biografia best seller, Donald è il protagonista di una parodia come l’avrebbe concepita solo Mel Brooks.

La sua casa – che alle case bisogna fare attenzione, come i cani somigliano sempre ai loro proprietari, anche quando le camuffano per apparire altro – è un set tipico di Dinasty. Stucchi di ori, baldacchini drappeggiati, divani damascati a grandangolo, tessuti abbronzanti, lampadari in cristallo a sisa di milf e putti piscianti fortuna. Una Barbie per first lady e l’erede minore come soprammobile, a cavallo di un trofeo di safari impagliato di sete e velluti.

Non te la immagini povera first cambiarsi l’assorbente in quel bagno, in pantofole la sera accarezzare il parrucchino presidenziale sul divano luccicante. Ti ce l’aspetti solo sorseggiare il whisky serale – che a un certo punto si scoprirà da copione essere il suo vizio inconfessato – e sedersi in pizzo su quel divano in simil ricco antico per deprimersi di ansiolitici in differita o frignare col marito del silicone della sua ex che ci ha già scritto un libro.

Quel letto a baldacchino di raso lucido poi, spammato con troppa enfasi nel web già in campagna elettorale, ti anticipa la puntata dello scandalo che, è solo questione di tempo, si girerà, a ravvivare la parte nei momenti di stanca. Quando l’acerrimo Kim Jong un, antagonista coreano anche lui prodotto di fiction asiatica, avrà risolto le ansie distruttive su un atollo dell’atlantico, cosa inventeranno gli autori? Avrà il nostro Donald davvero stretto un patto con Putin e in cambio di cosa? avrà lanciato un missile in Turchia perché Erdogan gli ha insidiato la first lady o bombardato l’Afghanistan perché sul copione c’era scritto premi il pulsante? Avrà costruito davvero il muro per recintare i messicani o solo perché agli scenografi avanzava del cemento armato?

E soprattutto quanto durerà la first lady prima che le si scoprano altarini inenarrabili, tali da fare impallidire l’impeachment sotto la scrivania del predecessore Clinton, a sua volta marito della candidata nella dinastia antagonista?

 

Perché è vero, la saga presidenziale non comincia con Trump, è almeno dai tempi dei Kennedy che si gira il film della Casa Bianca. Ma almeno finora era un colossal anche avvincente, con risvolti da fantapolitica e da thriller, 007, marziani, mafie, scandali e intrighi, attrici e attori di Hollywood. Con Donald la Dinasty si declassa a soap vintage, come se gli sceneggiatori si fossero avvitati nella nostalgia dei tempi d’oro, o perlomeno dorati.

È tutto già visto, e per questo, tutto assolutamente possibile. Lo sappiamo bene noi che ci siamo sorbiti vent’anni di reality del Cavaliere insegnando al mondo quanto può piacere un premier da cine panettone dei Vanzina. L’incredibile è più che possibile, conveniente, la distanza fra l’assurdo del dire e il fare assurdo si fa sempre più sottile. La quotidianità  talmente affamata di illusioni sensazionali che le abbiamo preferito la fiction, anche la più surreale, coltivata in decenni di allevamento televisivo. Ribaltando il senso abbiamo cominciato a imitare la finzione.

Perché la finzione è rassicurante. Ci lascia la sensazione che nulla di quanto il più pazzerellone dei potenti potrà fare sarebbe davvero irreparabile, che in fondo anche JR Hewing aveva un cuore, che comunque come nel finale del Truman Show potrà entrare l’autore e fermare l’azione. Che la democrazia si può ancora esportare con guerre lampo, missili intelligenti e madri di tutte le bombe.

Che tanto domattina al risveglio il ciuffettone biondo ci sorprenderà ancora, magari rivelandosi non solo sodale ma appassionato amante gay di Putin, il rosso nemico di ieri che l’ha conquistato in un party da sogno nella villa in Sardegna del nostro Cavaliere. Che magari, per la legge dell’improbabilitá assoluta, scopriremo Silvio vero architetto supremo della sceneggiatura, lo spin doctor della cupola mondiale, fonte di ispirazione di ogni spectre che voglia mettere una testa di legno nella sceneggiatura della sua storia.

Antonio Pizzola

1 Commento su "Dinasty"

  1. Lascio un like fisso su Pizzola. Fisso, come nelle schedine. Con lui non si perde mai.
    Grazie!

Comments are closed.