Le macerie sono qui intorno, lontane ormai dall’epicentro. A nove anni dal terremoto dell’Aquila la polvere è rimasta fuori dal cratere. Ed oggi, più di ieri, più di nove anni fa, si sente il peso, qui nella terra dimenticata, di quell’esclusione tracciata a tavolino, macchiata come un leopardo, decisa nelle segrete stanze, inutilmente combattuta sulle carte da bollo, quando la questione era solo ed esclusivamente della politica. Domenica scorsa il programma di Raitre Report ci ha mostrato un capoluogo rinato, dove lentamente ma progressivamente le gru fanno posto ad edifici ricostruiti e dove, soprattutto, la ricostruzione, che quelli moderni chiamano resilienza, è passata ed è diretta al tessuto economico: la città della conoscenza messa in piedi dal Gran Sasso Science Institute è solo una delle risposte, certamente la più efficace, che L’Aquila è riuscita a dare. Merito degli aquilani, certo, e del loro caparbio e a volte ingombrante campanilismo, che ha strappato metro dopo metro terreno alla politica, soldi, impegni e linfa vitale a tutto il resto del territorio. Siamo contenti per L’Aquila, molto meno per le sue “vassalle” e in particolare per quel Centro Abruzzo che, salvo isolate eccezioni, è rimasto fuori alla finestra e fuori dal cratere. E non è tanto il fatto che qui siano arrivate le briciole della ricostruzione, gli avanzi delle risorse umane per gestirle, quanto perché si è pensato, la politica ha pensato, che bastasse far ripartire L’Aquila per far ripartire tutto il resto. Così non è andata: a Sulmona e nella Valle Peligna, nelle aree interne, la polvere sollevata dal terremoto del capoluogo ha imposto una cappa irrespirabile, ha sottratto risorse e idee, persone e forze, e continua a sottrarre: binari ferroviari, investimenti di aziende, investimenti pubblici, centralità e ruoli geopolitici. Non c’è nulla di “orizzontale” nel piano Marshall per l’Abruzzo, non ci sono concessioni e regalie. Anzi, piuttosto guardinghe sentinelle “dell’aquilanità mea”. Non è un motivo per avercela con il capoluogo e i suoi abitanti, piuttosto un monito perché, come hanno fatto loro, la gente peligna cominci a programmare la sua ricostruzione, impari ad essere resiliente, cominci ad alzare la voce e soprattutto le idee. Perché il 6 aprile, oggi, è qui.
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