Ovidio chi?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Publio Ovidio Nasone, semplicemente Ovidio per i suoi conterranei che dovendogli intitolare ditte di confetti o infissi non potevano dilungarsi nella toponomastica, è morto duemila anni fa.

Venti secoli, duecento decenni, quattrocento lustri.

Tanti, troppi per i contemporanei abruzzesi che volessero rivendicare una progenie comune, una comunanza di sentire, una parentela di geni di cui andare fieri. Seppure infatti si ammettesse che la stirpe di provenienza sia determinante nella formazione di un artista, che un Leopardi ciociaro non avrebbe guardato l’Infinito e un Ariosto molisano si sarebbe forse accontentato di un Orlando mansueto, duemila anni di vicende, trasformazioni, sovrapposizioni e intersezioni di spermatozoi e ovuli di genti di ogni dove annacquerebbero anche il genio creativo più resistente ed inossidabile.

Del resto lo stesso Umberto Eco, smontandoci il vanto di discendere dagli antichi romani, ci ammoniva di essere piuttosto figli dei vandali bestiali e cornuti che scesero a fare man bassa dell’antica civiltà romana. E delle sue donne.

Tanto da non lasciare nulla della cultura dell’antico impero, nemmeno il nostro Ovidio, che se è arrivato fino a noi è solo grazie ai monachini medioevali che ce lo ricopiarono a mano. Per quel poco che della sua vita ci hanno tramandato sappiamo che lasciò la valle dei Peligni appena dodicenne, neanche il tempo di strofinarsi gli attributi sull’ermo colle di S.Cosimo, di abbeverarsi alla fonte dell’amore a lui dedicata.

I suoi volevano si desse alla carriera politica, non certo alla poesia.

Dalla sua terra non trovò nemmeno il sostegno minimo che dovrebbe accompagnare ogni emigrante, fosse pure se incaponito ad aprirsi un chiosco di salsicce di cotechino nello stato islamico. Sì certo, immortalò nei versi Sulmona come sua patria, ma sta a vedere con quale intenzione, se con amara consapevolezza o davvero per orgogliosa appartenenza. Non è dato sapere quante volte tornasse a rinfrescarsi nelle gelide ed uberrime acque natie, se si facesse vedere almeno per la processione di Ercole Curino o se preferisse, come farebbe un contemporaneo, restarsene a piluccare uva nel calidarium dell’imperatore gongolandosi di ars amandi con le ancelle di corte.

 

Ora, studiosi ben più titolati di me sono già pronti a contestarmi queste amenità, rintracciarebbero senz’altro nella poetica ovidiana la vena di ispirazione che trasse dalla provincia augustea – di certo culturalmente più vivace dell’attuale- che gli dette i natali, ma la sostanza non muterebbe. I concittadini del III millennio con il poeta latino che nacque nella loro terra duemila anni or sono, c’entrano poco o niente: sfido qualsiasi studente pur appassionato a legare il poeta latino che insegnava l’Amore con la città dei confetti.

Del resto i suoi discendenti fanno poco o niente per tenere viva la memoria.Per fargli una statua, che non negano nemmeno a un papa emerito, ci hanno messo 1900 anni, per finire col copiarla a quella di Costanza, città rumena dove è solo morto ma che gliel’ha eretta prima. Vero, conserviamo un precedente, una pregevole rappresentazione in pietra del 400, ma la teniamo nascosta a ingrigire dietro un portone chiuso da decenni. Non un museo, una casa, una scuola, un centro studi – che perfino in Canada lo conoscono più di noi- un fondo di ricerca, un parco letterario, un eventerello annuale che esca fuori confine, una celebrazione degna.

Per la città dove è nato, Publio Ovidio è solo la presenza bronzea  in piedi sul piedistallo a piazza XX, il burbero nonno palestrato come un attore di Ben Hur, nero, incazzato e grondante ossido verdastro sotto le intemperie. Che quando nevica diventa perfino un po’ checca, con la mantellina di neve e il berrettino dandy che gli sgocciola sul naso.

 

Improvvisamente nel 2017 si ricordano del suo ingombrante anniversario. Di quando è morto però, non di quando è nato, e già questo non promette niente di buono. Infatti è tardi, giunti impreparati all’appuntamento con la storia i suoi concittadini non sono riusciti a mettere in piedi una celebrazione degna del poeta che il resto del mondo appassiona. Nonostante la buona volontà dei più appassionati, la pioggia delle migliaia di euro che sarebbero dovute calare sul comune resta sospesa in aria, in attesa di un si dal parlamento, dove probabilmente – visti i soggetti- echeggia rimbalzando fra i banchi uno sconsolante:

ma Ovidio chi?

Un convegno fra di noi, qualche lettura nel teatro cittadino altrimenti chiuso, una visita del presidente meno popolare fra i presidenti poco popolari, e, attenti, si dice scenda a valle forse proprio il Cavaliere di Arcore, quale profondo discepolo più che di versi latini di frugali ancelle nei calidarium di corte.

E ciao.

Come è venuto il 2017 finirà, Ovidio tornerà ad essere una marca di confetti che gronda ossido verdastro e pure sto bimillenario, ringraziando Eros con tutto l’Olimpo, ce lo saremo tolto dalle preoccupazioni comunali.

 

Antonio Pizzola