Non saranno mai abbastanza le parole dette in ricordo di ciò che accadde quella notte. Ognuno di noi ha la propria paura e la fuga da raccontare, dopo il brusco risveglio delle 3:32.
Da quel momento, la parola “casa” smise di rappresentare un posto in cui stare al sicuro e cominciò a indicare un ammasso di cemento pronto a tradire, perché “È il crollo degli edifici che uccide, non il terremoto”.
Dopo quella notte, per molte notti, nessuno ha più potuto rimboccare le coperte a qualcuno, augurando dei “Sogni d’oro” che non era sicuro ci sarebbero stati. Avremmo tanto voluto rassicurare i nostri figli con un semplice “Andrà tutto bene”, ma le parole ci si strozzavano in gola. Ci sentivamo incapaci di proteggerli.
Avevamo paura.
Alle prime luci dell’alba di quell’infausto giorno, i telegiornali ci misero al corrente di quanto successo e scoprimmo che non eravamo stati noi il bersaglio della sciagura, ma il nostro capoluogo di regione.
Un terremoto di 5,8 gradi della scala Richter, in venti secondi, aveva distrutto gran parte del centro storico aquilano e molti paesi vicini. Onna era stata completamente rasa al suolo.
Trecentonove persone, a poche decine di chilometri da noi, persero la vita quella notte, altre persero la casa, gli affetti o il lavoro. Tutti persero la tranquillità.
Trecentonove persone, fra le quali Roberta e Carmelina, che si trovavano nel capoluogo per motivi di studio.
Trecentonove persone che potevamo essere noi, nei nostri letti, inermi, al caldo, rassicurati da un “Andrà tutto bene” privo di fondamento, divulgato da qualcuno, dopo quattro mesi di scosse continue.
L’Aquila, città universitaria viva e vivace, si spense all’improvviso, proprio come fecero in seguito i riflettori delle troupe televisive, che documentarono tutto, fino a quando arrivarono notizie più fresche da commentare e l’interesse si spostò altrove.
Invece L’Aquila è rimasta là, ferita e sola, fra le macerie delle case, delle scuole, delle chiese, delle vite e delle speranze crollate.
A Sulmona dormivamo poco e pregavamo molto, sperando che tutto finisse presto e che la terra tornasse a star ferma. Nei giorni che seguivano le notti passate in auto, nelle tende o nelle roulotte, andavamo in giro come zombie, in cerca di rassicurazioni che nessuno poteva darci.
Riuscivamo a trovare un lieve conforto, solo dando il nostro piccolo aiuto ai feriti e agli sfollati, grazie alle varie iniziative di raccolta dei beni di prima necessità da inviare nel capoluogo.
Eravamo tutti terrorizzati.
Cominciarono a diffondersi previsioni di
imminenti fortissime scosse che presto ci sarebbero state, dopo quelle di assestamento, ma questa volta da noi, perché ora, secondo la statistica, toccava alla Valle Peligna.
Qualcuno prevedeva addirittura il giorno e l’ora in cui sarebbe avvenuto il presunto terremoto disastroso. Benché razionalmente sapevamo che si trattasse di notizie infondate, non riuscivamo a restare indifferenti di fronte a tali passaparola allarmanti e quel giorno, a quell’ora, ce ne stavamo in un piazzale, lontani dagli edifici, a far passare il tempo e la paura.
C’è voluto tanto per tornare alla normalità della vita domestica, con i figli a scuola, le preoccupazioni rivolte al lavoro, la siesta sul divano e la doccia fatta con calma, senza pensare a come salvarsi nel caso ce ne fosse stato il bisogno.
C’è voluto tanto per smettere di osservare il lampadario ad ogni starnuto del vicino di casa e a rimettere le pantofole ai piedi del letto, al posto delle scarpe e dello zaino d’emergenza.
Da quel 6 aprile, ogni notte tranquilla è stata un regalo e ogni tran tran quotidiano una piacevole conferma.
Abbiamo imparato cosa sono il radon, il carotaggio, i puntellamenti, i tiranti, le catene, l’Ingv, la zona rossa, i punti di raccolta, il cratere sismico e i Musp.
Abbiamo messo in cima alla lista dei desideri una casetta di legno in aperta campagna, al posto dell’attico in zona di lusso.
Ci siamo abituati a passeggiare fra transenne, sotto balconi rinforzati da strutture lignee che, dopo dieci anni, avrebbero bisogno esse stesse di essere messe in sicurezza.
Abbiamo scoperto la nostra bellissima città, che attrae turisti con i monumenti antichi, i palazzi storici e le chiese secolari, terribilmente fragile.
Fragile proprio nella sua bellezza.
Ma i soldi per rinforzare, incatenare, sostenere, demolire e ricostruire sono difficili da reperire.
Ci è toccato far finta di dimenticare la paura di quella notte, vivendo nella speranza che il letargo della terra duri il più a lungo possibile.
In realtà niente sarà più come prima del 6 aprile 2009, altrimenti tutte le preghiere fatte per le vittime, per i feriti e per gli sfollati sarebbero state inutili.
Sarebbe come vivere alla giornata, non imparando niente da ciò che è stato, vivendo e lasciando vivere, senza neanche un piano di evacuazione o una torcia a portata di mano.
Sarebbe come porgere l’altra guancia al destino, rischiando di farci cogliere di nuovo inermi, rassicurati da un “Andrà tutto bene” privo di fondamento.
gRaffa
Raffaella Di Girolamo
Meravigliose queste riflessioni.